Prigionieri della nostra coscienza

Nel giugno del 2001 conclusi il mio mandato di presidente della Sezione Italiana di Amnesty International, durato quattro anni. Ero entrato nel movimento nel 1987, aderendo ai gruppi di attivisti di Torino. E con questo chiudo — per adesso — la parentesi personale, che ho infilato solo per dire che ho letto Amnesty International in Italia con un occhio forse un po’ diverso da quello dei tanti lettori che spero avrà, ben oltre l’ampio gruppo di attivisti di Amnesty di ieri e di oggi.

Un punto di vista unico

Pochi, forse nessuno, potevano raccontare la storia italiana della più grande associazione per i diritti umani dal di dentro come ha fatto Antonio Marchesi. Ha iniziato a frequentare Amnesty alla fine degli anni Settanta, quando ancora non aveva vent’anni, è stato attivo in un gruppo, ha stampato volantini che poi ha distribuito in giro per le città. Ha frequentato la sede della sezione italiana quando ancora era un piccolo ufficio in via della Penna — che coincidenza, per la sede di un’associazione che scrive appelli — a due passi da Piazza del Popolo, a Roma.

Ha collaborato con il Segretariato Internazionale ed è stato in missione in varie parti del mondo. È stato vicepresidente della Sezione Italiana di Amnesty International quando era davvero tanto giovane e, soprattutto, ne è stato presidente per due volte — un caso unico — e in due periodi ben diversi della vita di Amnesty. Ha cioè guidato la Sezione Italiana di un’Amnesty non dico completamente diversa ma parecchio cambiata, tra il suo primo e il suo secondo mandato.

In più Antonio Marchesi è un accademico: è professore all’Università di Teramo, dove insegna appunto diritto e diritti umani. Quindi ha veramente un punto di vista unico, per raccontare la storia di Amnesty. In Italia, sì, ma Antonio parla anche di questioni internazionali, inevitabilmente, perché la Sezione Italiana è parte integrante di un movimento mondiale.

Impossibile restare la stessa

Un movimento che, racconta il libro, è davvero cambiato tanto. Nasce e diventa famosa, Amnesty, per le sue battaglie in favore dei dissidenti, per l’opposizione alla pena di morte e alla tortura. Si porta dietro, per molti anni, alcuni vincoli volti a rendere la sua azione specifica, concreta e mettere al riparo la sua indipendenza.

Ma il mondo cambia, Amnesty non può restare la stessa. Deve evolvere, deve diventare qualcosa di diverso dall’associazione delineata dall’articolo di Peter Benenson con cui è nata, I prigionieri dimenticati, pubblicato sull’Observer il 28 maggio 1961.

Una trasformazione difficile, a volte dolorosa, per molte attivisti e molti attivisti che hanno visto cambiare modi di lavorare che avevano adottato per decenni.

Antonio Marchesi riporta tutto questo percorso, nel piccolo — sono circa 180 pagine, in formato tascabile — ma denso libro che ha realizzato. Le pagine più belle, per me, sono quelle in cui racconta aneddoti, cose che ha vissuto in prima persona. Ne avrei volute di più, non — o non solo — perché è un modo di rendere più avvincente il racconto ma proprio perché Antonio è davvero stato protagonista di tanti eventi storici, per Amnesty Italia e non solo.

La sezione che s’incarta su se stessa

Più volte Marchesi riflette sulle discussione tra attiviste e attivisti e in particolare vi dedica un paragrafo dal titolo Le vicende interne. Diversi temi intorno ai quali si discute sono una costante, nella storia di Amnesty Italia: il rapporto tra lo staff e i volontari, l’andamento del numero degli iscritti, la ricerca di una solidità economica e la conseguente sempre molto animata discussione sul come fare raccolta fondi.

Antonio ricorda anche «polemiche più sterili, andate oltre la soglia di ordinaria litigiosità presente in qualunque contesto associativo». Lui affrontava e rispondeva con pazienza alle varie questioni su cui veniva contestato ma ricordo che alla fine del suo primo mandato da presidente italiano, nella relazione all’assemblea generale, descrisse questa situazione come la sezione che s’incarta su se stessa.

Condivido con Antonio questa esperienza. Il tempo impiegato in vicende interne è decisamente più elevato di quello che si può immaginare da fuori. Però, forse, è il rovescio della medaglia di un’organizzazione che davvero ce la mette tutta per essere aperta e democratica. Oltre agli intensi dibattiti — che ogni tanto, certo, sbracano — lo testimonia anche il fatto che il ricambio — almeno ai livelli più alti — c’è. Come detto, Marchesi è stata l’unica persona a diventare presidente due volte in periodi diversi ed è davvero un evento eccezionale. Negli altri casi, dopo quattro anni si è sempre mollato l’incarico, senza riprenderlo. Non è una cosa che accade spesso, nel nonprofit italiano.

Altra peculiarità: Amnesty ha permesso (non so se sia il verbo opportuno) che diventassero presidenti anche persone giovani. Marchesi aveva appena passato i trent’anni quando è stato eletto presidente la prima volta, ne avevo trenta giusti quando lo sono diventato io, meno di trenta ne aveva il mio successore, Marco Bertotto, e giovane è anche il presidente attuale, Emanuele Russo.

Le pecche non mancano, sia chiaro: la più evidente, forse, è che le presidenti donne nella ormai non breve storia di Amnesty Italia sono state solo tre (Margherita Boniver, Carla Gottardi e Christine Weise). È un problema da affrontare (e io non l’ho affrontato, quando dovevo).

Prigionieri della nostra coscienza

«Mi sembra di parlare di cose poco rilevanti o, peggio, di raccontare un fallimento — il fallimento di un ideale in cui ho sempre creduto e continuo a credere — o, ancora, di descrivere un modo “virtuale”… irrealizzabile e forse irrealizzabile». Antonio scrive queste cose subito, nella seconda pagina della nota introduttiva. Poi continua: «Quasi sempre, a un certo punto, mi viene rivolta una domanda che suona più o meno: “ma tutto questo serve a qualcosa?”».

Marchesi contrappone gli attivisti idealisti ai “realisti”, quelli che, scrive, «fanno notare che i “i diritti umani vanno bene in teoria ma la politica, interna e internazionale, è un’altra cosa”».

In realtà io penso che chi si batte per i diritti umani sia di solito molto più pragmatico di chi agisce — o dice di agire — in nome della realpolitik. La guerra in Ucraina sta lì a dimostrarlo. I difensori dei diritti umani denunciano da decenni i crimini di Putin e del suo regime. I ‘realisti’ hanno più volte replicato che sì, certo gli ideali sono importanti, ma lasciateci comprare il gas russo, facciamo affari con Putin e vedrete che l’economia cresce, si sta meglio tutti e tutto si aggiusta.

Ed è solo un esempio dei tanti casi in cui gli idealisti che difendono i diritti umani hanno capito le cose molto prima e molto meglio dei ‘realisti’, che navigano spesso a vista e poi vanno a sbattere.

La domanda però resta: l’impegno in difesa dei diritti umani serve a qualcosa? La risposta di Marchesi è in parte in questo libro e credo ancor più nella sua vita professionale e di attivista.

Per parte mia, non saprei che risposta dare. Me ne guardo bene dal tentare un bilancio complessivo su un impegno così grande. Dico solo che avrei voluto di più, molto di più, avrei voluto che nel rispetto dei diritti umani il nostro paese raggiungesse almeno un minimo livello di decenza da cui, temo, siamo ancora lontani. Però si continua, si deve continuare, perché quello di utile che si può fare va fatto e perché non credo che la nostra coscienza sia disposta a lasciarci liberi.

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