Ho iniziato a leggere Qualcosa, là fuori nel 2017 ma l’ho mollato piuttosto in fretta. Qualche mese prima avevo iniziato ad approfondire il tema del cambiamento climatico. Non che in precedenza ne sapessi nulla, ma è solo verso la fine del 2016 che ho cominciato a leggere libri e articoli su questa faccenda della terra che si riscalda.

Confesso che il mio interesse, in quel periodo, era soprattutto volto a rispondere a questa domanda:

Ma quanto è brutta, la situazione?

Quando ho capito che Qualcosa là fuori  è ambientato verso la fine di questo secolo, mi ci sono lanciato proprio per trovare risposta alla domanda di cui sopra. Ma, dopo qualche decina di pagine, ho sentenziato: ‘ok, non so quanto sia brutta, ma non può essere così brutta’.

Non che io abbia delle competenze per poter dire se è tanto o poco probabile un certo innalzamento del livello del mare piuttosto che un altro. Ma il parere sulla verosimiglianza di quanto descritto da Arpaia me lo sono formato anche grazie a una recensione pubblicata su un sito scientifico, Climalteranti, dov’è scritto che «lo scenario descritto da Arpaia […] è, alle conoscenze di oggi, infondato» (L’articolo intero si può trovare qui: https://www.climalteranti.it/2016/06/…).

Da qui il mio errore di mettere il volume da parte, almeno sino a qualche giorno fa quando, su Twitter, è partita una discussione su un libro di Amitav Ghosh. Ne La grande cecità lo scrittore indiano denuncia l’assenza della letteratura sul tema del cambiamento climatico, fatta eccezione per le opere definite di climate fiction. Così nella discussione, a cui ha partecipato anche Arpaia, è stato citato Qualcosa, là fuori (che non definirei climate fiction, più sotto spiego perché).

Così mi è venuta voglia di riprenderlo in mano. Dopo tutto, mi sono detto, in questi quattro anni ho messo la testa sull’emergenza climatica, ho acquisito più strumenti per capirci qualcosa (il che non vuol dire che davvero io ci capisca qualcosa ma, insomma, mi ci oriento un po’ meglio rispetto a qualche anno fa). Dovrei avere più strumenti per capire il volume.

E sono molto contento di esserci tornato, su questo libro, perché è un libro importante. In quanto alla verosimiglianza dello scenario descritto nel romanzo, a distanza di anni, il mio sintetico parere è questo: ma chi se ne importa! Sia chiaro: non è che Arpaia ha sparato cose a caso. È un autore che nel mondo della scienza si sa muovere molto bene: basti pensare che ha collaborato a lungo con Pietro Greco, importante divulgatore scientifico morto improvvisamente alla fine del 2020. Arpaia ha dunque preso delle stime molto pessimistiche che qualche ricercatore ha fatto e, anche se non sono stime molto accreditate tra i climatologi, le ha usate nel suo romanzo.

Ma chissene importa, appunto, perché il valore del libro, ai miei occhi, è un altro. Non è tanto quello di valutare se dal punto di vista dell’innalzamento dei mari e della desertificazione succederà quello che Arpaia descrive.

È quello di mostrare che a fare la differenza sarà il modo con cui noi,
genere umano, reagiremo alla situazione.

E non mi riferisco al darsi da fare per tagliare le emissioni di gas serra, bensì al modo di convivere in un mondo che comunque va a peggiorare. Arpaia ipotizza nuove alleanze tra i paesi del nord Europa, che tentano di tenere lontani gli abitanti dei paesi mediterranei, più colpiti dall’emergenza climatica (e questo è un dato di fatto: che noi, paesi dentro il Mediterraneo subiamo conseguenze peggiori rispetto agli altri, dal cambiamento del clima, non lo nega nessuno).

Immagina gli Svizzeri che si rifugiano più in alto che possono, e vessano gli italiani che passano dentro i loro confini per cercare rifugio verso il nord del continenti. S’inventa che il popolo statunitense, per rispondere alla grande inquietudine generata dalla crisi climatica, manda alla Casa Bianca un estremista predicatore (venisse mai il dubbio: il libro è disponibile dall’aprile 2016, quando ancora non ci s’immaginava Trump presidente).

Personalmente credo che questo libro apra un filone nuovo, per questo non gli affibierei l’etichetta di ‘climate fiction’. Un filone che porta a riflettere su come gli esseri umani nelle singole comunità e nella comunità internazionale possono reagire a situazioni difficili, in questo caso addirittura inedite.

Mi sembra un terreno decisamente poco battuto. Se da un lato discutiamo moltissimo – e a buona ragione, credo – del mezzo grado in più o in meno, decisamente meno discutiamo di come si potrà convivere in un mondo che sarà cambiato. Spero che non sarà cambiato nel modo devastante che sperimenta Livio, il protagonista del romanzo, ma sarà comunque cambiato in peggio.

Al di là dei contesti della macropolitica, Bruno Arpaia ci fa riflettere su come le persone, nel loro quotidiano, affrontano e affronteranno queste situazioni. E mi fa pensare che anche a questo ci dobbiamo preparare. Non con rassegnazione ma, al contrario, con la consapevolezza che, per quanto brutta sia la situazione, abbiamo un margine di manovra che ci consente di aiutarci a vicenda.

Bruno Arpaia, Qualcosa, là fuori, Guanda, 2016, 220 pagine.

Jonathan Franzen ha deciso che quella per il clima era una battaglia in cui si vinceva o si perdeva, come una partita di pallacanestro. Bisogna usare il passato perché, nella visione di Franzen, quella partita si è già giocata, ed è stata persa. Questa, a mio avviso, è la prima debolezza del pamphlet E se smettessimo di fingere? pubblicato in Italia da Einaudi.

La mia prima sensazione è che Franzen ragioni come quegli ambientalisti che pure critica. Se la prende infatti con chi dice che abbiamo ancora dieci anni – o quel che è – per salvare il pianeta, perché a suo dire, quei dieci anni non ce li abbiamo più. Lui dà per scontato che l’aumento della temperatura non starà sotto i 2 °C e quindi la partita è persa, fine della storia.

Al di là del valutare se sulla questione specifica della temperatura abbia torto o ragione, quello che non mi convince è l’idea che se si arriva a 1,9 °C siamo salvi, ma se arriviamo a 2,1 °C, siamo spacciati. Franzen non scrive precisamente questo, a onor del vero, ma il suo ragionamento mi pare questo: c’è una soglia, e quella soglia siamo destinati a superarla. La battaglia è persa.

A me sembra un modo un po’ troppo lineare di pensare all’emergenza climatica. Le catastrofi si vedono già oggi, così come le loro tragiche conseguenze su milioni di persone. Ma ciò non toglie che si possano fare un sacco di cose per impedire alcune (molte?) tragiche conseguenze ancora da venire ed evitare grandi sofferenze. Probabilmente i ghiacciai delle Alpi oramai ce li siamo giocati, con gravi conseguenze sulla disponibilità d’acqua nella pianura padana. Quelli della Groenlandia ancora no.

Adattamento contro mitigazione

Credo che la situazione sia più complicata di come appare da questo libro. Non migliore né peggiore di come la dice Franzen, ma più complicata: la partita è aperta, e lo sarà sempre, perché sempre ci sarà qualcosa da fare per impedire tragedie e sofferenze.

Per Jonathan Franzen, invece, ormai non vale più la pena spendere soldi in treni ad alta velocità che «potrebbero anche non essere adatti al Nord America» (il perché non siano adatti non lo so, l’autore non lo scrive). E questo perché «ogni miliardo di dollari speso in treni ad alta velocità è un miliardo che non viene messo da parte per prepararsi ai disastri, per risarcire i paesi inondati o per futuri aiuti umanitari».

Trovo un po’ spiazzante contrapporre le spese per la mobilità in treno a quelle per la risposta ai disastri o agli aiuti umanitari. A me, alle spese per il cosiddetto ‘adattamento’ – quello che si deve fare per gestire i danni prodotti dal cambiamento climatico – non vengono da contrapporre quelle per la cosiddetta ‘mitigazione’, cioè quello che si deve fare per limitare i danni prodotti dal cambiamento climatico.

Altre spese da tagliare potrebbero essere quelle militari. Mi scuso per il riferimento iper banale e super scontato, ma sempre di difesa si parla.

In sintesi, mi sembra che Franzen affermi che qualsiasi azione sul versante della mitigazione sia inutile, mentre sul versante dell’adattamento ci siano enormi possibilità di fare qualcosa di concreto. Su questa seconda parte mi convince. Qualsiasi sia lo scenario che verrà a delinearsi, ad attendere l’umanità c’è una situazione difficile. Mio figlio che ora ha otto anni vivrà in un mondo più ostile di quello che ho conosciuto io, su questo non mi faccio grandi illusioni. Per cui, riuscire, a costruire società migliori, più democratiche, in cui ci si prende cura di chi e di ciò che ci sta vicino, come scrive Franzen, secondo me è fondamentale.

Contro la scienza

La parte iniziale di questo libro Franzen la dedica ai suoi dissidi con ambientalisti, che non sono pochi e sono piuttosto intensi. Ma la critica di Franzen non risparmia neppure gli scienziati. L’autore specifica che «le persone che non danno ascolto alla scienza climatica sono il peggio del peggio», ma mi sembra che lui non si faccia scrupolo di rifiutare ciò che dicono gli scienziati che si occupano di clima, quando affermano qualcosa che non condivide.

Nel libro è contenuta anche un’intervista rilasciata a Wieland Freund per «Die Literarische Welt». Freund chiede a Franzen: «Molti ricercatori assicurano che la crisi climatica si può ancora fermare. Secondo te non è così? Perché non credi alle loro argomentazioni?». La risposta di Franzen è netta: «Dobbiamo considerare chi sta parlando: se non è un lobbista o un attivista – in altre parole, se è sincero – qualunque climatologo specificherà che evitare gli scenari peggiori è possibile in teoria».

Insomma, chi non condivide la sentenza di Franzen sul fatto che la battaglia per il clima è perduta, non può essere un climatologo. È un mentitore.

Supporre di aver capito

La mia sensazione è che Franzen faccia una supposizione un po’ audace: suppone di aver capito tutto quello che c’è da capire, sulla crisi climatica. Nonostante sia un argomento di grande complessità, sembra avere pochi dubbi. Sia chiaro: su alcune cose non è lecito avere dubbi. La temperatura della terra sta aumentando in modo velocissimo, e ciò sta avvenendo per colpa delle attività degli esseri umani che producono gas serra. Non è di questo che si sta parlando.

Si sta parlando, però, di tutte quelle cose che si possono ancora fare per gestire i tanti differenti aspetti che riguardano il cambiamento climatico. A cominciare dalle cose che è possibile fare per limitare i danni, che sono tanti: su molte di queste cose, il dibattito è aperto, la ricerca è in corso. Bollare tutto ciò come inutile, perché tanto la battaglia ormai è persa, secondo me è un atteggiamento un po’ supponente.

Credo sia un’ottima cosa che grandi scrittori come Franzen, Jonathan Safran Foer e Fred Vargas abbiano scritto sull’emergenza climatica. Penso però che occorra maggior accortezza: un romanziere, per quanto abbia studiato e approfondito l’argomento, non riuscirà a raggiungere la competenza di chi, per mestiere e passione, si occupa di questi argomenti dotato di strumenti matematici e scientifici adeguati.

Credo, allora, che il loro ruolo debba essere quello di accompagnare noi lettori in questo campo così complesso. Penso ci debbano aiutare ad accostarci alla scienza, a farci ragionare sulle conseguenze di ciò che è stato scoperto e che si sta via via scoprendo. Ma se invece assumono il tono di chi dice «ho capito come stanno le cose, e adesso ve le spiego», secondo me, sbagliano.

E se smettessimo di supporre di aver capito tutto?

Può darsi che sia ora di smetterla di parlare di cambiamento climatico. Nel senso che, forse, discutere di parti di CO2 nell’aria, di temperatura, in salita, di acidità degli oceani, ha un limite: le vedono in pochi, queste cose. Aggiungo che, parlando di cambiamento climatico in senso generale espone al rischio di infilarsi in discussioni un po’ frustranti con chi sostiene che non è vero nulla e che — come dimostra un grafico tirato fuori chissà dove — in una particolare località di un fiordo, in qualche momento del sedicesimo secolo la temperatura era più alta di oggi e, dunque, il riscaldamento globale è una bufala.

Forse, dobbiamo parlare soprattutto dei cambiamenti che stanno avvenendo, che in buona parte sono già avvenuti e noi ci siamo in mezzo. Terra bruciata lo fa benissimo. Stefano Liberti racconta il viaggio che ha compiuto attraverso i luoghi più colpiti d’Italia.

Viaggio che inizia con i ghiacciai alpini, il cui ritrarsi è davvero impressionante, anche intorno al re di quelle vette, il Monte Bianco. Liberti segue il corso del Po, sino al mare, dove l’acqua salata ha già conquistato considerevoli fette di terreno. Racconta Venezia che affonda: la storia di Anna e Gianni, che vivono a pianterreno, in questa città, è straordinaria, nel far capire cosa vuol dire, in concreto, affrontare i problemi legati al cambiamento climatico (anche se Venezia affonda non solo per via del mare che s’innalza, questo Liberti lo spiega benissimo).

Il libro racconta la forza distruttrice del vento Vaia, che ha cancellato boschi nel Triveneto. Liberti incontra gli apicoltori e i contandini che lottano contro la famelica cimice asiatica. Parla di come la Sicilia stia diventando un’isola tropicale e di come le grandi città affrontino il loro destino, che è quello di essere delle isole di calore.

È un libro che parla di lavoro, anzi, di come cambiano i lavori. Ci sono i lavori strettamente connessi all’emergenza climatica. Quelli di climatologi e fisici dell’atmosfera, che cercano di capire come vanno le cose. Quelli di chi cerca di arginarne le conseguenze, come il Chief Resilience Officer della città di Milano.

Ma c’è anche il lavoro di chi, agricoltore, si vede cambiare la situazione sotto gli occhi. E, allora, ha cominciato a coltivare manghi, avocado e altri frutti tropicali. La capacità di adattarsi non risolve certo il problema del cambiamento climatico, ma è necessaria, già oggi, e a breve diventerà indispensabile.

Qualcosa manca, nel libro di Stefano Liberti. Ma non perché lui abbia dimenticato di mettercela, ma proprio perché non c’è. Mi riferisco alle classe politica. L’Italia — Liberti lo ripete tante volte — è uno dei paesi al mondo che più subisce e più subirà le conseguenze del cambiamento climatico. Eppure è uno dei paesi dove i politici — e i media — ne parlano di meno. L’Italia è uno dei paesi dove è più forte il movimento di Fridays For Future, eppure, queste giovani e questi giovani sono senza interlocutori politici.

L’emergenza climatica non entra neppure nei dibattiti elettorali, cosa che invece sta avvenendo anche negli Stati Uniti d’America (se poi, oltre a entrare nei dibattiti influenzerà anche le scelte degli elettori, lo sapremo tra qualche settimana).

Una soluzione non esiste. Ci sono, piuttosto, una serie di cose da fare. Il libro di Stefano Liberti, parlando dei cambiamenti concreti che già sono in atto, mi sembra vada nella giusta direzione.