Nel giugno del 2001 conclusi il mio mandato di presidente della Sezione Italiana di Amnesty International, durato quattro anni. Ero entrato nel movimento nel 1987, aderendo ai gruppi di attivisti di Torino. E con questo chiudo — per adesso — la parentesi personale, che ho infilato solo per dire che ho letto Amnesty International in Italia con un occhio forse un po’ diverso da quello dei tanti lettori che spero avrà, ben oltre l’ampio gruppo di attivisti di Amnesty di ieri e di oggi.

Un punto di vista unico

Pochi, forse nessuno, potevano raccontare la storia italiana della più grande associazione per i diritti umani dal di dentro come ha fatto Antonio Marchesi. Ha iniziato a frequentare Amnesty alla fine degli anni Settanta, quando ancora non aveva vent’anni, è stato attivo in un gruppo, ha stampato volantini che poi ha distribuito in giro per le città. Ha frequentato la sede della sezione italiana quando ancora era un piccolo ufficio in via della Penna — che coincidenza, per la sede di un’associazione che scrive appelli — a due passi da Piazza del Popolo, a Roma.

Ha collaborato con il Segretariato Internazionale ed è stato in missione in varie parti del mondo. È stato vicepresidente della Sezione Italiana di Amnesty International quando era davvero tanto giovane e, soprattutto, ne è stato presidente per due volte — un caso unico — e in due periodi ben diversi della vita di Amnesty. Ha cioè guidato la Sezione Italiana di un’Amnesty non dico completamente diversa ma parecchio cambiata, tra il suo primo e il suo secondo mandato.

In più Antonio Marchesi è un accademico: è professore all’Università di Teramo, dove insegna appunto diritto e diritti umani. Quindi ha veramente un punto di vista unico, per raccontare la storia di Amnesty. In Italia, sì, ma Antonio parla anche di questioni internazionali, inevitabilmente, perché la Sezione Italiana è parte integrante di un movimento mondiale.

Impossibile restare la stessa

Un movimento che, racconta il libro, è davvero cambiato tanto. Nasce e diventa famosa, Amnesty, per le sue battaglie in favore dei dissidenti, per l’opposizione alla pena di morte e alla tortura. Si porta dietro, per molti anni, alcuni vincoli volti a rendere la sua azione specifica, concreta e mettere al riparo la sua indipendenza.

Ma il mondo cambia, Amnesty non può restare la stessa. Deve evolvere, deve diventare qualcosa di diverso dall’associazione delineata dall’articolo di Peter Benenson con cui è nata, I prigionieri dimenticati, pubblicato sull’Observer il 28 maggio 1961.

Una trasformazione difficile, a volte dolorosa, per molte attivisti e molti attivisti che hanno visto cambiare modi di lavorare che avevano adottato per decenni.

Antonio Marchesi riporta tutto questo percorso, nel piccolo — sono circa 180 pagine, in formato tascabile — ma denso libro che ha realizzato. Le pagine più belle, per me, sono quelle in cui racconta aneddoti, cose che ha vissuto in prima persona. Ne avrei volute di più, non — o non solo — perché è un modo di rendere più avvincente il racconto ma proprio perché Antonio è davvero stato protagonista di tanti eventi storici, per Amnesty Italia e non solo.

La sezione che s’incarta su se stessa

Più volte Marchesi riflette sulle discussione tra attiviste e attivisti e in particolare vi dedica un paragrafo dal titolo Le vicende interne. Diversi temi intorno ai quali si discute sono una costante, nella storia di Amnesty Italia: il rapporto tra lo staff e i volontari, l’andamento del numero degli iscritti, la ricerca di una solidità economica e la conseguente sempre molto animata discussione sul come fare raccolta fondi.

Antonio ricorda anche «polemiche più sterili, andate oltre la soglia di ordinaria litigiosità presente in qualunque contesto associativo». Lui affrontava e rispondeva con pazienza alle varie questioni su cui veniva contestato ma ricordo che alla fine del suo primo mandato da presidente italiano, nella relazione all’assemblea generale, descrisse questa situazione come la sezione che s’incarta su se stessa.

Condivido con Antonio questa esperienza. Il tempo impiegato in vicende interne è decisamente più elevato di quello che si può immaginare da fuori. Però, forse, è il rovescio della medaglia di un’organizzazione che davvero ce la mette tutta per essere aperta e democratica. Oltre agli intensi dibattiti — che ogni tanto, certo, sbracano — lo testimonia anche il fatto che il ricambio — almeno ai livelli più alti — c’è. Come detto, Marchesi è stata l’unica persona a diventare presidente due volte in periodi diversi ed è davvero un evento eccezionale. Negli altri casi, dopo quattro anni si è sempre mollato l’incarico, senza riprenderlo. Non è una cosa che accade spesso, nel nonprofit italiano.

Altra peculiarità: Amnesty ha permesso (non so se sia il verbo opportuno) che diventassero presidenti anche persone giovani. Marchesi aveva appena passato i trent’anni quando è stato eletto presidente la prima volta, ne avevo trenta giusti quando lo sono diventato io, meno di trenta ne aveva il mio successore, Marco Bertotto, e giovane è anche il presidente attuale, Emanuele Russo.

Le pecche non mancano, sia chiaro: la più evidente, forse, è che le presidenti donne nella ormai non breve storia di Amnesty Italia sono state solo tre (Margherita Boniver, Carla Gottardi e Christine Weise). È un problema da affrontare (e io non l’ho affrontato, quando dovevo).

Prigionieri della nostra coscienza

«Mi sembra di parlare di cose poco rilevanti o, peggio, di raccontare un fallimento — il fallimento di un ideale in cui ho sempre creduto e continuo a credere — o, ancora, di descrivere un modo “virtuale”… irrealizzabile e forse irrealizzabile». Antonio scrive queste cose subito, nella seconda pagina della nota introduttiva. Poi continua: «Quasi sempre, a un certo punto, mi viene rivolta una domanda che suona più o meno: “ma tutto questo serve a qualcosa?”».

Marchesi contrappone gli attivisti idealisti ai “realisti”, quelli che, scrive, «fanno notare che i “i diritti umani vanno bene in teoria ma la politica, interna e internazionale, è un’altra cosa”».

In realtà io penso che chi si batte per i diritti umani sia di solito molto più pragmatico di chi agisce — o dice di agire — in nome della realpolitik. La guerra in Ucraina sta lì a dimostrarlo. I difensori dei diritti umani denunciano da decenni i crimini di Putin e del suo regime. I ‘realisti’ hanno più volte replicato che sì, certo gli ideali sono importanti, ma lasciateci comprare il gas russo, facciamo affari con Putin e vedrete che l’economia cresce, si sta meglio tutti e tutto si aggiusta.

Ed è solo un esempio dei tanti casi in cui gli idealisti che difendono i diritti umani hanno capito le cose molto prima e molto meglio dei ‘realisti’, che navigano spesso a vista e poi vanno a sbattere.

La domanda però resta: l’impegno in difesa dei diritti umani serve a qualcosa? La risposta di Marchesi è in parte in questo libro e credo ancor più nella sua vita professionale e di attivista.

Per parte mia, non saprei che risposta dare. Me ne guardo bene dal tentare un bilancio complessivo su un impegno così grande. Dico solo che avrei voluto di più, molto di più, avrei voluto che nel rispetto dei diritti umani il nostro paese raggiungesse almeno un minimo livello di decenza da cui, temo, siamo ancora lontani. Però si continua, si deve continuare, perché quello di utile che si può fare va fatto e perché non credo che la nostra coscienza sia disposta a lasciarci liberi.

Tra alcuni miei contatti Linkedin vedo circolare la proposta di donare tramite Airbnb, il che potrebbe non essere la cosa migliore da fare. L’idea che anima questa iniziativa – senz’altro lodevole, nelle intenzioni – è semplice: in Ucraina, come in quasi tutti i paesi del mondo, ci sono persone che affittano propri appartamenti tramite Airbnb. Appartamenti che in questo periodo restano vuoti o comunque non accolgono clienti.

Ma se io voglio aiutare qualche persona che vive in Ucraina ad affrontare la tragedia che l’ha colpita, posso acquistare uno o più soggiorni in un Airbnb – anche se poi non ci vado – così che al proprietario dell’alloggio arrivino direttamente un po’ di soldi. Un gesto concreto che dimostra anche vicinanza.

Forse, però, ci sono modi migliori per intervenire.

Il popolo ucraino sta subendo un’aggressione e sta soffrendo e le donazioni sono un modo per aiutarlo. E, in effetti, di donazioni per la popolazione ucraina ne stanno arrivando molte. Sono soldi che servono: nel giro di breve tempo milioni di persone hanno abbandonato il proprio paese – un evento raro anche tra le tante sciagure che si scatenano sul pianeta – e c’è bisogno immediato di aiutarle. Donare a qualunque organizzazione che lavora – bene – sull’emergenza profughi, a mio parere, è positivo.

Diverso è il discorso di chi invece vuole aiutare le persone che sono ancora in Ucraina. È una cosa certamente difficile da fare, nel contesto terribile che vediamo. Se si vuole fare questo, secondo me

è meglio sostenere chi è già in Ucraina da tempo

Ci sono associazioni e ONG che sono dal paese da diversi anni, anche decenni, che già conoscono la situazione, già sono radicate e molto probabilmente sono le più rapide ed efficaci nell’aiutare le vittime di questa aggressione. Non solo: sono le associazioni che meglio di altre potranno contribuire alla ricostruzione, nel momento in cui questa inizierà.

Personalmente ho scelto e raccomando WeWorld, che è presente in Ucraina – tramite un’associazione partner – dal 2004. Ma penso che anche Soleterre sia una buona scelta, che pure opera nel paese da circa vent’anni e continua a dare il suo contributo. Ci sono sicuramente altre associazioni che non conosco, in ogni caso credo che sostenere realtà già sul posto sia un buon criterio in generale (anche Il Post fa una scelta di questo tipo). Il che non toglie, sia chiaro, che anche un’associazione che parte adesso possa fare qualcosa di utile.

Ma allora, donare soldi a una famiglia ucraina host di Airbnb non è il modo migliore di rispettare il criterio ‘sostieni chi già è sul posto’?

Provo a spiegare la mia perplessità con questa analogia. Immaginiamo di arrivare in un villaggio di qualche angolo del mondo dove tutte le famiglie soffrono la fame. Abbiamo in mano una busta con dei soldi, ma non sappiamo a chi darla. Ripeto, tutte le famiglie patiscono, tutte hanno bambini da nutrire. Ma a un tratto ci accorgiamo di una cosa: tutte le famiglie sono vestite allo stesso modo, con abiti marroni. Tranne una: una famiglia è vestita di rosso ed ecco allora che facciamo la nostra scelta. Diamo i soldi alla famiglia vestita di rosso, seguendo un unico criterio, quello della maggiore visibilità.

Ai nostri occhi, oggi, tra le tante persone che soffrono in Ucraina, chi è nella rete di Airbnb è più visibile. Aiutare una persona o una famiglia tramite questo sistema è senz’altro un gesto nobile e concreto ma, secondo me, resta preferibile fare una donazione a chi interviene per aiutare un maggior numero di persone e famiglie e lo fa sapendo dare priorità ai casi più urgenti, al chi più ha bisogno, per quanto sia difficile dare priorità in situazioni come quella ucraina.

Personalmente, confido che organizzazioni con esperienza, professionalità e la conoscenza, maturata nel tempo, del paese, riescano a dare il miglior aiuto possibile.

* * *

Airbnb, come azienda, ha dato vita a un’attività di sostegno agli ucraini, diversa però da quella sopra raccontata. In sostanza, chiede alle persone host di mettere a disposizione alloggi per i rifugiati.

Se mi permetto di discettare sulla raccolta fondi in occasione dell’emergenza Ucraina è perché ho passato molti anni – come volontario e come lavoratore – in alcune ONG che si occupano di diritti umani e giustizia sociale. Il che non fa di me un esperto ma mi ha permesso di conoscere persone molto esperte, da cui mi faccio spiegare le cose.

Il 20 febbraio sono stato ospite di Padri eterni, una trasmissione su Radio 24 dedicata alla paternità e a quello che ci gira intorno. Non perché hanno invitato me, ma è davvero una bella trasmissione, con pochi fronzoli e molto pragmatica. L’approccio di Federico Taddia e Matteo Bussola, i due conduttori, lo sintetizzerei così: fare i padri è bellissimo, ma è anche dannatamente complicato. Parliamone.

L’occasione per invitarmi è stata l’uscita di Più idioti dei dinosauri e tra le cose che mi hanno chiesto Federico e Matteo c’è stata questa: come reagisce tuo figlio, quando parlate di cambiamento climatico? Ho traccheggiato, perché di cambiamento climatico, Cosimo e io, ancora non abbiamo parlato. O meglio, ancora non ne abbiamo parlato nei modi espliciti in cui ne parlo nel libro. E non so quando e come lo farò.

Certo, mio figlio e io commentiamo il caldo che c’è, soprattutto in questi mesi invernali. Notiamo preoccupati che sono tre mesi che non piove. Quando a geografia studia le fasce climatiche ragioniamo sul fatto che quella situazione lì, quella raccontata sui libri, non è definita una volta per tutte, sta cambiando.

Però – mi dico – non ha ancora dieci anni mio figlio. Davvero dovrei parlargli delle difficoltà che la crisi climatica potrebbe sbattergli in faccia tra qualche anno? Non è una domanda retorica, non ho la risposta.

Ma vedo quanto sono consapevoli ragazzə poco più grandə di lui, adolescenti o poco più che di crisi climatica ne sanno molto più di me. Ragazzə che, capito come stanno le cose, sono preoccupatə.

Sarà così anche per mio figlio? Questione di quattro-cinque anni e avrà chiarezza su quanto la crisi climatica gli romperà le scatole? Se sì, posso e devo fare qualcosa, per fare in modo che questo passaggio non sia troppo traumatico?

Per il momento, pilatescamente, attendo. A sette anni ha conosciuto il lockdown da pandemia, ora ne ha nove e sta ancora in classe con la mascherina. Meglio aspettare un po’.

E comunque adesso c’è la guerra il che mi fa pensare che, forse, il problema non è solo mio. Forse sono tante le persone che non vogliono parlare di crisi climatica perché fino a poco tempo fa sono state angosciate dal covid e adesso sono angosciate dalla guerra anche se, per via della faccenda del gas russo, qualche collegamento tra questa guerra e l’emergenza climatica c’è.

In una vignetta delle Peanuts Charlie Brown dice che «il segreto della vita è sostituire una preoccupazione con un’altra». Pandemia e guerra non sono ‘preoccupazioni’, sono tragedie. Ma gareggiano nel contendersi la nostra attenzione e il turno della crisi climatica, nel pretendere la nostra angoscia, sembra non sia ancora arrivato.

Il problema, comunque, non si risolve ma nemmeno si rimanda. Di questa guerra, mio figlio e io, come ne possiamo parlare? Qualche risposta la trovo di nuovo in una puntata di Padri eterni, quella del 27 febbraio, in cui interviene anche la responsabile dei progetti educativi di Emergency. L’ascolto, ma mi viene da pensare, per quanto mi riguarda, che il segreto della vita, forse, è sostituire una sensazione di inadeguatezza con un’altra.

Mi bastano i pochi minuti quotidiani di Cecilia Sala. Mi Bastano le foto pubblicate da Il Post, come quella in cui un padre che resta a combattere, passa il figlio alla madre, al di là di una cancellata.

Non mi bastano per capire – per quello non so cosa serva – mi bastano per far apparire il resto irrilevante e  farmi sentire impotente. Eppure, impotente o meno, mi unisco allə tantə che sulla criminale aggressione dell’Ucraina scrivono, dicono la loro. Come se avessi da spiegare qualcosa di determinante, come se avessi trovato il modo di giustificare quello che continuo a fare.

C’è un popolo aggredito, ci sono case, scuole e asili bersagliati, ci sono bambini uccisi.

Ma continuo con la mia vita fatta di famiglia, lavoro, sostegno al libro che ho scritto ed è uscito da poco. Vorrei dare un senso a questo andare avanti, dire che può contribuire a migliorare questa situazione. Ma in realtà solo una cosa mi sembra chiara: “bisognava pensarci prima”.

Vorrei che quei politici europei che sino a ieri hanno osannato la figura di Vladimir Putin scomparissero dalla scena pubblica. Ma vorrei seguissero la stessa sorte anche le persone che hanno messo la politica energetica del nostro paese nelle mani di un dittatore sanguinario.

Dieci anni fa il 27% del gas che utilizzavamo proveniva  dalla Russia. Adesso siamo al 45% (*). Eppure, dieci anni fa il regime di Putin aveva già massacrato migliaia di persone in Cecenia. Aveva già aggredito la libertà di pensiero e di stampa nel suo paese. Chi ha voluto aumentare – anziché diminuire fino a zero – la dipendenza dell’Italia da questi criminali?

«Forse la soluzione c’era o ci sarebbe stata facendo delle cose non adesso, ma qualche anno fa», dice Francesco Costa nella puntata di Morning del 2 marzo scorso.

Forse, dico anche io, devo trovare le cose da fare per non ritrovarci di nuovo a dire ‘bisognava pensarci prima’. Forse è l’unico modo sensato per affrontare la situazione. Se è così, pretendere da chi ci governa di mettere seriamente mano alla transizione ecologica, togliendo di mezzo ostacoli burocratici, smettendola di farsi condizionare da chi ancora vorrebbe fare soldi con gas e petrolio, è delle cose da fare.

Per non trovarci, di nuovo, tra pochi anni, a maledire la nostra dipendenza da risorse nelle mani di dittatori e criminali e un clima completamente fuori controllo.

* * *

Ci sono tante associazioni che stanno aiutando i profughi e le vittime di guerra. Io ho scelto di fare una donazione a We World, che è attiva in Ucraina, tramite un’associazione partner tedesca, dal 2004.

(*) quanto sia importante il gas naturale, nel produrre l’energia elettrica del nostro paese, lo si vede dai dati del Gestore Servizi Energetici, in questa tabella. In sintesi: siamo al 43%. Poco meno della metà, dunque, arriva dalla Russia. Detta ancora più semplice, 2 kwh su 10 – circa, eh? – li compriamo da Putin.

Nella prima metà di febbraio tre persone hanno fatto lo sciopero della fame davanti al Ministero della Transizione Ecologica. Il loro obiettivo è ottenere un incontro pubblico con il ministro Cingolani per parlare della crisi climatica (in fondo al post riassumo la vicenda).

Le tre persone si chiamano Laura Zorzini, Beatrice Costantino e Peter Bon. Laura, più di Beatrice e Peter, ha colpito l’attenzione dei media italiani che si sono affrettati a definirla ‘la Greta italiana’.

Un’altra.

Digitando ‘greta italiana’ sul motore di ricerca Ecosia, già solo alla prima pagina vengono fuori Federica Gasbarro, Marilena Russo, Alice, Ariane, Miriam Martinelli.

Come fa notare Nicolas Lozito nella sua newsletter di sabato 19 gennaio l’essere associati a Greta Thunberg non è la cosa più piacevole che possa capitare. Spesso e volentieri significa tirarsi addosso critiche e insulti.

In ogni caso, questo tirare in ballo Greta Thunberg ogni volta che
s’incontra un’attivista per il clima mi pare un’ossessione.

Ossessione che però non hanno lə attivistə del movimento.

Per scrivere Più idioti dei dinosauri ho dialogato con esponenti di Fridays For Future e nelle nostre a volte lunghe e ripetute chiacchierate, non abbiamo mai menzionato Greta Thunberg. Mi rendo conto che il mio è un osservatorio limitato, non faccio statistica. Però, nei confronti di questa donna, mi sembra che la mia generazione (diciamo sopra i quaranta, via) abbia un approccio sballato (al di là dei cafoni che la insultano, ovviamente).

Forse, più cresciamo più abbiamo la tendenza a classificare, a inscatolare. Un po’ perché ci piace fare quelli che hanno capito come va il mondo (e questo è male). Un po’ per semplificare, per risparmiare tempo (e questo non è male). Ma il rischio di sbagliare è grosso: tra le donne definite via via la ‘Greta italiana’, si trovano persone sia con la metà degli anni della svedese sia con dieci anni in più. Le differenze nei percorsi di studio e di carriera sono enormi. Come si fa a mettere tutto in un mazzo unico, solo perché queste persone condividono il genere e l’attivismo contro la crisi climatica?

Ma credo ci sia un problema ancora più grande:

parlare di Greta Thunberg è un modo per eludere il problema.

È un modo per discutere di una persona, anziché di quello che dice.

Cosa che allə attivistə non credo stia bene. Loro mi pare abbiano un approccio più pragmatico: non interessa discutere di Greta Thunberg, a loro interessa ragionare sul modo con cui limitare le emissioni di gas serra.

(Nota. Si potrebbe obiettare che una delle persone citate come la Greta italiana si sia voluta associare a Greta Thunberg addirittura richiamandola nella copertina di un suo libro. Ma nel novembre del 2021, su Telegram, Fridays For Future Italia ha chiarito che non si tratta di un’attivista del loro movimento).

La protesta di fronte al MITE

In Italia da qualche tempo abbiamo un Ministero per la Transizione Ecologica, chiamato anche MITE. Detta in breve, questo ministero dovrebbe guidare quei tanti processi necessari per far sì che il nostro paese continui a crescere senza però far crescere i gas serra in atmosfera.

Secondo alcune (parecchie?) persone il MITE non sta facendo bene il proprio lavoro e tra queste ci sono Laura Zornini, Beatrice Costantino e Peter Bon, che partecipano alle attività di Ultima Generazione. Queste tre persone si sono piazzate davanti alla sede del MITE, che si trova sulla Cristoforo Colombo, abbastanza all’inizio e hanno iniziato uno sciopero della fame con l’obiettivo di chiedere al ministro Cingolani un incontro pubblico.

Laura Zornini ha avuto problemi di salute che ne hanno causato anche il ricovero e forse è per questo motivo che più di Beatrice e Peter ha ottenuto un po’ di attenzione da parte dei media.

Il tema dell’incontro richiesto, come si può immaginare, è: che vogliamo fare, per affrontare il disastro che incombe?  Incontro che è stato concesso per il 2 marzo ore 18.00. Questo il contesto della situazione, a cui credo si debba aggiungere che il 2 febbraio alcuni attivisti di Ultima Generazione hanno imbrattato l’ingresso della sede del MITE, e che qualche giorno dopo le forze dell’ordine hanno portato i manifestanti in caserma. Insomma, il confronto non è stato proprio facile.

Al Festival di Sanremo 2022 la multinazionale del cane a sei zampe ha sparato i colpi grossi. Però l’impegno di Eni per mostrarsi attenta alla società in cui opera parte da lontano. È un impegno fatto di tante piccole azioni meno eclatanti ma capillari e, forse, con un impatto non meno profondo di quella andata in scena durante lo spettacolo più visto della televisione italiana.

Esponendosi in modo così plateale Eni si è attirata anche le critiche. Il vero vincitore di Sanremo è il greenwashing, scrive «Il Domani», ed è solo una delle voci che hanno avuto da dire sulla beatificazione dell’Eni come azienda in prima linea contro il disastro ambientale.

Quando invece Eni mette il proprio nome in iniziative prestigiose ma inevitabilmente meno seguite, di critiche sembra ne arrivino meno. Tra queste iniziative – alcune molto belle, a mio parere – due mi colpiscono in modo particolare.

Uno è il premio Vivere a spreco zero. Per le buone pratiche di economia circolare e sviluppo sostenibile. Nel 2021, il premio è arrivato alla nona edizione e a questo link si può vedere di cosa si tratta. Vi partecipano, come organizzatori e ospiti, personalità importanti, alcune delle quali sono in prima linea contro la crisi climatica, com’è il caso, per il 2021, di Luca Mercalli.

Scorrendo la pagina del sito si arriva all’elenco dei reference partner. Ci sono le banche di credito cooperativo e c’è il CONAI, consorzio nazionale che si occupa del ricupero e del riciclo degli imballaggi. E poi c’è Eni. Ma come si può associare una gigantesca impresa leader mondiale nel settore degli idrocarburi alle ‘buone pratiche di economica circolare e sviluppo sostenibile’?

In un’altra pagina c’è il dettaglio dei premi: da qualche anno Eni è associato al premio “Categoria saggistica, pagine di sostenibilità”, premio che nel 2021 è stato vinto da La pianta del mondo di Stefano Mancuso e nel 2020 da La rivolta della natura, di Eliana Liotta. Di nuovo, che premi sulla sostenibilità siano assegnati da una multinazionale del petrolio non suona un po’ strano?

Un altro caso è forse più indiretto. Il Festival della Letteratura di Mantova, evento bellissimo, non ha come obiettivo il promuovere la sostenibilità o la lotta al cambiamento climatico. Credo abbia invece lo scopo di promuovere la bella letteratura e l’incontro tra scrittori e lettori. Nonostante ciò, che il primo sponsor a comparire nella home page del festival sia proprio Eni, un po’ mi colpisce.

Insomma, la mia sensazione è che Eni si voglia accreditare come azienda seria, responsabile, attenta alle varie dimensioni del ‘vivere bene’, da quelle culturali a quelle ambientali. E credo abbia il diritto di farlo. Ma penso che dovrebbe farlo non a colpi di sponsorizzazioni e tappeti verdi, bensì spiegando come pensa di combattere la crisi climatica continuando a estrarre petrolio, o perché pensa che puntare così tanto sul gas naturale sia una buona idea.

«Daniele, ma perché non l’intitolate Il cambiamento climatico spiegato a mio figlio?».

«Non saprei, Luca: è che mi vengono in mente diversi titoli del tipo ‘qualcosa spiegato a mio figlio’. Non credo sia una buona idea».

«Dici che è troppo inflazionato?».

«No, Luca, dico che un titolo del genere potrebbe far pensare che io ci abbia capito qualcosa, in questa faccenda dell’emergenza climatica».

Luca mi guarda perplesso. «Daniele, perdona: mi stai dicendo che hai scritto un libro su un argomento di cui non hai capito nulla?».

Bene, adesso ho confuso le idee anche a lui. O forse no, perché, inconsapevolmente il mio amico Luca ha centrato il punto: ho cominciato a scrivere Più idioti dei dinosauri non per spiegare cosa sta succedendo ma, al contrario, per capirci di più, in quello che sta succedendo. Ho scritto questo libro per conoscere i guai che la crisi climatica causerà alla vita di mio figlio.

Beh, in realtà l’ho fatto anche per un altro motivo: per cercare adulti – genitori ma non solo – che hanno questi miei stessi pensieri. L’idea che mandiamo i giovani e le giovani in un futuro incerto, che diventerà sempre più difficile, è terrificante. Non riesco a gestirla da solo.

Il titolo di questo post è dichiaratamente copiato.
L’immagine viene di conseguenza.

Does anybody else in here, feel the way I do?